“Dottore, che sintomi ha la normalità?”

Non è semplice definire cosa sia la normalità. La storia della Psicologia si è prevalentemente dedicata al funzionamento patologico poiché da una parte ne è affascinata, dall’altra la sua scienza non avrebbe senso se non nella comprensione dei meccanismi patologici, per poter delineare dei trattamenti efficaci e mirati.

La rubrica #Psycologia, per scelta, non affronta i temi della psicopatologia, ma cerca di contribuire ad una maggiore consapevolezza di quei meccanismi comuni alla maggior parte delle persone, tratta cioè argomenti che fanno parte della sfera della normalità. Ma cosa si intende esattamente per essere normali?

Quando si è posto il problema di definire in cosa consistesse, sono state proposte diverse possibili spiegazioni, non tutte soddisfacenti. Una è che la normalità sia sovrapponibile alla normatività, cioè, come dicevamo, a quei comportamenti prevedibili che appartengono alla maggior parte degli individui. Ma questo è un po’ riduttivo; per esempio, può essere normale il comportamento di ritrazione dell’arto quando si tocca il fuoco, poiché è un riflesso che appartiene a tutti, ma ci sono una miriade di comportamenti e reazioni che non sono affatto condivisibili.

Un’altra concezione definisce la normalità per opposizione alla patologia, ma anche questa non sembra soddisfacente: non è certamente sufficiente dire che uno non è malato per spiegare come funziona. Un’altra ancora si basa sulla compatibilità al concetto di benessere. Quest’ultima potrebbe essere plausibile, se solo non considerassimo che proprio chi ha una sofferenza mentale afferma con convinzione di stare bene.

Ecco, forse non se ne esce perché non esiste un concetto univoco di normalità; l’equilibrio ed il benessere sono percezioni soggettive che ciascuno può raggiungere attraverso vie ed esiti diversi. Allora è stato proposto un concetto di normalità basato sull’adattamento all’ambiente: uno è normale quando è adattato. E quando è l’ambiente ad essere disadattivo?

Dal momento che la definizione è così difficile l’unica possibilità di soluzione proviene dall’amplificazione dei punti di vista. Se osserviamo la questione da un punto di vista filosofico ed ermeneutico, possiamo capire intuitivamente come non si possa operare una definizione per opposizione o tramite riduzionismo ed occorre invece complessificare. Dal punto di vista psichico, per quanto ogni autore abbia elaborato dei modelli corrispondenti alle proprie teorie sul funzionamento mentale, possiamo appellarci a quei pochi che hanno tentato di descrivere il funzionamento normale.

Uno dei più degni di nota è senza dubbio Jung. Il merito più grande è stato quello di considerare normale non l’assenza di patologia, bensì l’integrazione delle proprie parti più oscure – Ombra – nel Sé, attraverso quello che chiama percorso di Individuazione.

Forse dovremmo considerare questa come una definizione plausibile di normalità, non cioè una condizione ideale di assenza di conflitti, di normatività, di adattamento acquiescente a qualsiasi ambiente, ma una condizione di consapevolezza di quanto in noi – e nella nostra realtà – c’è di indesiderabile ed anomalo, perché diventi una parte integrabile, accettata e consapevole e perché possa essere cambiata quando genera sofferenza.

In copertina: foto di Pol Úbeda Hervas

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo, classe 1986. Si laurea in Scienze Cognitive e Psicologia presso l'Università degli Studi di Messina. Collezionista di titoli, a causa della sua passione per la Ricerca viene condannata a tre anni di Dottorato, ma pare ne abbia già scontato la metà. Chiamata a curare la rubrica di #psycologia, non ha potuto rifiutare questa insolita richiesta d'aiuto.
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