Fare e credere

In realtà l’ordine dovrebbe essere al contrario; il fare, nonostante pervada del tutto la nostra esistenza, è soltanto l’espressione esteriore, la traduzione nella realtà, la reificazione. Credere è l’elemento sovrano del mondo dell’essere umano, è lui – gli diamo del lui, concedete –  il motore che muove, che aziona ogni muscolo. Volendo, credere ha un suo superiore in questa scala immaginaria, che è pensare. In fondo credere è un prodotto del pensiero, credere è figlio di pensare ( è sempre così? – si spera! ). Con buona pace di Cartesio quindi, mi sa che – certo in un’altra chiave di lettura – il suo ‘cogito ergo sum’ trionfi. Ma pensare in che termini? Non pensate al pensare che porta al credere in maniera mastodontica, non è il pensare dei pensatori che porta al credere che porta al fare, cioè non è solo quel pensare che porta al credere che porta al fare, lo fa anche il pensare in maniera semplice e superficiale, il pensare quotidiano di ognuno di noi. Qualsivoglia tipo di pensiero, valido o meno, vero o presunto, nasce e cresce nelle menti umane, creato dalla materia grigia, dalle capacità intellettive e dalla casualità esterna o plasmato dalla coercizione – utile per certi versi – dell’educazione e, se non trova agenti di disturbo – come spesso accade – si evolve e trasforma in credo. Costui – è bello dargli forme umane, concedete – si siede sul trono ( la coscienza ndr) e dalla sua comoda postazione inizia a governare a proprio piacimento le mosse del suo suddito uomo, il quale a sua volta può adesso e soltanto adesso concedersi il fare, o perlomeno un fare “attivo”. Nei banchi di scuola ad esempio la differenza sostanziale fra il primo della classe e l’ultimo, più che in effettive capacità dei singoli o manifestazioni di intelligenza in forme svariate, risiede nelle differenze di credo. Il primo crede fermamente nel concetto scuola, nelle pagine dei libri di storia, nell’odore del gessetto e nella forma delle parentesi graffe, l’ultimo invece non ne concepisce nient’altro che la noia; l’utilità di quelle ore passate seduto fra i banchi rinchiuso fra quattro mura fatte di cartine geografiche appendi giubbotti e lavagne di ardesia non gli è concepibile, poichè il credo “scuola” non si è agganciato, non domina seduto sul trono. Stando così le cose al primo riesce l’utilizzo dei proprio circuiti cerebrali senza intoppi, all’ultimo invece non riesce per niente proprio per gli intoppi. La tendenza – dire stupida è da stupidi, servirebbe un aggettivo megagigante per ridicolizzare a dovere questa tendenza – è mettere in cattiva luce il soggetto non scolasticamente valido, tacciandolo di inadeguatezza e scarsa intelligenza, ma non in relazione al contesto scuola soltanto, no no, ampliati al contesto vita. Peccatore marchiato a fuoco. Eppure se trasportiamo gli stessi due, il primo e l’ultimo, in un altro scenario, i ruoli cambiano, spesso si rovesciano del tutto. E l’ultimo dimostra un’intelligenza che lascia sbigottiti coloro i quali avevano già – per colpa della loro forma di intelligenza non propriamente acuta – decretato che intelligente non lo fosse. Motti come “credi in te stesso ed otterrai ciò che vuoi” prendono spunto da questo concetto: certo lo esagerano e lo rendono irreale, ma i presupposti di partenza sembrerebbero adeguati. Ora è ovvio che non otterrai per forza ciò che vuoi credendo in te stesso, ma è altresì ovvio che senza credere in te stesso o in ciò che insegui non potrai ottenere – esclusi casi del tutto casuali di estrema fortuna – nulla, giacchè il credere è energia, è movente, orizzonte e cometa. Credere è l’elemento che da significato. Avete familiarità con il concetto di nichilismo? Non credere – posizione nichilista – porterebbe all’annichilimento, e non è un caso che la radice “nihil” = “nulla” sia il denominatore comune fra i due elementi. Il nulla al nulla. O dal nulla al nulla. Non avresti ragione di vivere se non credessi alla vita, non avresti ragione di mangiare vegetariano se non credessi nel vegetarianesimo ( si dice così?), non avresti ragione di consumare i tuoi stivali se non credessi nel viaggio, non avresti ragione di amare baciare sedurre accoppiarti se non credessi nel piacere in primis e nell’istituzione sociale dell’amore in seconda battuta, o niente di quanto detto e niente di quanto è avrebbe ragione di esistere senza l’accettazione e il riconoscimento di una qualche utlità da parte del nostro cervello, in conclusione quindi: credere, e poi, fare. Che se credi soltanto e non trasformi in fare, come si dice dalle nostre parti, “resti nta’ll’arria” e “non chiuncudisti nenti”.

Fedele Gugliandolo

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