La terribile meraviglia dell’arte

Quando la Psichiatria si accosta all’Arte spesso agisce secondo il metodo nomotetico: cerca cioè tracce, segni, elementi della psicopatologia dell’artista. Identifica i complessi ed i conflitti alla luce della sua storia personale comparandole alle opere; a volte, classifica ed etichetta alla ricerca di un modello di spiegazione.

Quando invece si concede di seguire il metodo idiografico, spostandosi da un piano normativo ad un piano soggettivo, utilizza gli strumenti che possiede per scendere nel mondo interno, per comprendere, più che spiegare, il funzionamento psichico.

Un processo così affascinante consente una lettura profonda che può iniziare dal percepibile, ovvero dal prodotto dell’arte: le tele, con i suoi contenuti ed il loro specifico carattere evocativo, in grado di smuovere emotivamente chi le osserva, attraverso un canale di comunicazione che non è quello convenzionale (la parola) ma è inconsapevole (la rappresentazione).

Questo prodotto è dunque il frutto di processi psichici ed affettivi specifici. La capacità di tradurre in immagini condivisibili le proprie rappresentazioni mentali non è da tutti, così come la follia non è da tutti. E’ un processo che esula dall’ordinario, è un modo alternativo, diverso, forse poco comprensibile nell’immediato, di comunicare. E’ l’invenzione di un sistema di segni, di un vero e proprio linguaggio. La combinazione di elementi esistenti, associati in modo insolito – unico strumento in grado di estrovertire, con grande sforzo e sofferenza, qualcosa che appartiene al mondo interno.

Le opere dei più grandi artisti – per citarne alcuni: Munch, Van Gogh, Ligabue, Dalì, De Chirico – sono ben descritte dall’aggettivo greco “teinòs”, che significa, allo stesso tempo, terribile e meraviglioso. La sofferenza emotiva è sublimata nell’opera d’arte: il conflitto dà vita a qualcosa di condivisibile ed apprezzabile, grazie al processo creativo.

Questo, come tale e per definizione, si nutre del pensiero divergente ovvero della capacità di combinare i simboli, di creare nuove associazioni. E, d’altro canto, si nutre anche dei dàimon, i demoni interiori che abitano la psiche e l’artista. Come un nucleo in cui il magma ribolle e fermenta per poi cedere alla pressante esigenza di venir fuori, trasformarsi, pietrificarsi, prendere nuove forme. Analogamente il prodotto dell’arte è quanto trasformato (dal processo creativo) e portato all’esterno dal mondo interno.

Proprio attraverso questo tipo di studio si è cominciato a considerare il valore terapeutico della trasformazione e della creazione che risulta particolarmente benefico per quella psiche che trova più immediata l’immagine della parola, dal momento che non è strutturata (processo secondario) ma ricca di simboli (processo primario).

Come dicevamo, chi ne fruisce recepisce l’opera non solo a livello percettivo ma anche a livello profondo. Perchè il mondo interno di tutti noi funziona per immagini, per rappresentazioni e quello che l’opera d’arte comunica passa attraverso un livello non verbale, ma immaginifico. Per tale ragione spesso l’opera si contempla senza proferire parola, per lasciare risuonare l’immagine dentro di sé e perchè la comprensione di essa necessita un tempo, per essere tradotta in un concetto esprimibile verbalmente.

In conclusione, ragionando col metodo nomotetico troveremo soltanto dei comportamenti fuori dalla norma, che non appartengono cioè alla maggior parte degli individui, anche se si parla di un talento fuori dall’ordinario. Analizzando invece questo affascinante rapporto fra arte e psiche con il metodo idiografico, saremo in grado di comprendere che tutto ciò è paradossale e straordinario allo stesso tempo, poichè laddove le capacità di adattamento ed i mezzi relazionali dell’artista vengono meno, la sofferenza psichica è in grado di generare una straordinaria alternativa di espressione: costruisce un mezzo per relazionarsi con gli altri e con il mondo esterno attraverso la condivisione dell’oggetto psichico e del relativo investimento libidico, ovvero, in altri termini, attraverso la condivisione delle immagini del mondo interno e delle emozioni ad esse associate.

* In copertina: Salvador Dalì – Idilio atomico e uranico melanconico, 1945, olio su tela (Madrid Mueso Nacional Reina Sofia)

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo, classe 1986. Si laurea in Scienze Cognitive e Psicologia presso l'Università degli Studi di Messina. Collezionista di titoli, a causa della sua passione per la Ricerca viene condannata a tre anni di Dottorato, ma pare ne abbia già scontato la metà. Chiamata a curare la rubrica di #psycologia, non ha potuto rifiutare questa insolita richiesta d'aiuto.
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