Tutta la verità sulle bugie

Da un punto di vista scientifico, non è stato facile studiare la bugia, un fenomeno così complesso da sfuggire continuamente ai tentativi di definizione e classificazione dei modelli teorici cognitivisti (come ad esempio, l’Information Manipulation Theory, l’Interpersonal Deception Theory o la Deceptive Miscommunication Theory) elaborati nell’ambito della Psicologia della Comunicazione.

E’ plausibile che questa fatica derivi da una questione ontologica; il tema richiama, infatti, una serie di pertinenze filosofiche, difficilmente riducibili a variabili semplici.

Il problema si pone già dalla definizione: “la menzogna è un atto comunicativo consapevole e deliberato di ingannare un altro che non è consapevole e che non desidera essere ingannato” scrive Luigi Anolli (Professore di Psicologia della Comunicazione presso l’Università cattolica di Milano, ndr).

La prima delle questioni che si pone è dunque la contrapposizione ad una (presunta) verità. Ma come riassumere secoli di speculazioni sulla soggettività, il problema del vero, del sensibile, dell’interpretabile, ovvero la conoscenza della conoscenza che ha condotto alle attuali riflessioni di Edgar Morin (filosofo contemporaneo, ndr) sulla Filosofia della complessità?

Per non parlare della questione morale. Si sa, le bugie ci consentono di evitare situazioni di conflitto o di imbarazzo, di nascondere la nostra opinione o emozione quando non la riteniamo appropriata al contesto, di mantenere l’autostima o migliorare la propria posizione sociale, sono in qualche modo rappresentazioni più gradevoli della realtà, che ottimizza il rapporto costi benefici per ottenere uno stato di cose desiderabile.

Eppure non è raro che un genitore possa insegnare al figlio: “non si dicono le bugie!” per poi chiedergli “ti prego non dire a mamma che ho rotto il vaso di nonna!”. Se il bambino ha meno di quattro anni, quel genitore sarà spacciato! Ma una volta acquisita la Teoria della Mente è possibile che il bambino voglia evitare che la mamma urli e può persino tenere il segreto, in cambio di figurine e caramelle ovviamente.

Pedagogicamente, è simpatico conoscere la distinzione fra bugie innocenti (dette per buona educazione), menzogne preparate (per evitare, ad esempio, una punizione) e menzogne impreparate (per far fronte ad una situazione imbarazzante). O tra menzogne a basso contenuto, come ad esempio le bugie che si raccontano ai bambini, l’occultamento e l’omissione di dettagli e menzogne ad alto contenuto, in cui la situazione è critica, conflittuale e mette in gioco la nostra stessa autostima.

Non risolveremo qui né le questioni legate alla verità, né quelle relative alla morale. Tuttavia, una riflessione va fatta piuttosto sulla plausibilità degli effetti delle nostre bugie. Ogni menzogna va calata in un contesto, relazionale o sociale, e all’interno di una struttura personologica. E’ chiaro che nessuno vorrebbe avere a che fare con un amico, un partner o un capo patologicamente bugiardo. E’ evidente anche che l’intenzionalità dell’inganno è deprecabile.

Inoltre il rischio psicopatologico è quello di alimentare esponenzialmente la Maschera junghiana che indossiamo di fronte agli altri, per convenzione sociale, rischiando di allontanarla eccessivamente dalla Persona (da noi stessi) e di trascinarla come una trappola sempre più insidiosa.

La crescita del sé allora forse si realizza nell’individuazione di una giusta distanza fra l’autenticità e lo stile comunicativo: essere sinceri senza ferire.

E toglietevi dalla testa quell’idea persecutoria di scoprire se l’interlocutore sta mentendo dalle alterazioni della voce, l’evitamento dello sguardo, i movimenti delle mani. Gli esperimenti dimostrano che si individua un mentitore solo nel 50% dei casi e sono più abili le persone che non hanno teorie precise a riguardo, perchè magari, quel poveraccio del vostro interlocutore si sta agitando perchè vi sta dicendo la verità.

Amelia Rizzo

14/01/2015

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo, classe 1986. Si laurea in Scienze Cognitive e Psicologia presso l'Università degli Studi di Messina. Collezionista di titoli, a causa della sua passione per la Ricerca viene condannata a tre anni di Dottorato, ma pare ne abbia già scontato la metà. Chiamata a curare la rubrica di #psycologia, non ha potuto rifiutare questa insolita richiesta d'aiuto.
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