28 dicembre 1908, ore 5,21. Un destino si compie | scirokko.it

Nel trattare un argomento così tanto drammatico della storia messinese, ci avvaliamo di una leggenda popolare che sdrammatizza un po’ i toni e conferisce, a questo apocalittico scenario della storia peloritana, una connotazione magica.

Nella tradizione popolare, un ragazzino di nome Cola, figlio di una lavandaia, vissuto nel XIII secolo a Torre Faro, era conosciuto in tutta Messina per le sue abili capacità da nuotatore; si diceva persino che percorresse ogni giorno il tratto di mare da Messina a Catania sott’acqua, tanto da essere diventato livido e squamoso proprio come un pesce (da qui l’appellativo “Colapesce”).
Federico II, re di Sicilia, incuriosito da questo giovanotto, volle conoscerlo e per  appurare le tanto decantate qualità, lanciò una coppa d’oro in mezzo al mare e lo esortò a scendere nelle profondità dello Stretto per recuperarla; Cola si tuffò e riapparve con la coppa. Il re, sbalordito, decise allora di lanciare la sua corona in un tratto di mare ancora più profondo, in un luogo dove le correnti risucchiano le navi; Cola si tuffò e riuscì di nuovo nell’impresa. Al terzo tentativo, il re lanciò il suo anello in un tratto di mare ancora più profondo; Cola si tuffò ma non riemerse più.
Più tardi, qualcuno narrò che durante la ricerca dell’anello, nelle profondità del mare, il ragazzo si accorse che la Sicilia poggiava su tre colonne: una era salda e forte, la seconda era un po’ malandata e la terza – quella che regge Messina – era incrinata e in procinto di crollare. A quel punto il giovane avrebbe deciso di rimanere sott’acqua per reggere, con le sue braccia vigorose, la traballante colonna peloritana e per proteggere la sua città dai terremoti; quando è un po’ stanco – e sposta la colonna da una spalla all’altra – Messina ondeggia e vacilla, ma è certo che fino a quando le forze glielo consentiranno, Cola cercherà di ritardare la tragedia che – ahimè –si annuncia inevitabile.

«Missina, Missina, un jornu sarai mischina», sarebbero state le sue parole. E la triste profezia si avverò.

La sera del 27 dicembre 1908, la città pullulava di gente. I caffè, i teatri, i cinematografi e i circoli erano letteralmente invasi dai messinesi che, approfittando del clima festivo, tardavano a tornare a casa per concedersi ancora qualche vizio.
Quella sera, alle 20.30, era stata rappresentata l’Aida di Verdi al teatro Vittorio Emanuele; tutto intorno era un brulicare di gente entusiasta e di nomi storici, onore e vanto della Sicilia, che avrebbero senza dubbio terminato la nottata in qualche circolo di lusso riservato all’èlite della città. Quella notte regnava ovunque un clima di festa, che tardava a concludersi nonostante piovigginasse, facesse molto freddo e una strana foschia aleggiasse nell’aria, creando un po’ di inquietudine. Nessuno poteva sapere che quella sarebbe stata l’ultima notte per Messina e che la sua storia, di lì a poco, si sarebbe arrestata.

L’alba di quel giorno sorgeva su uno spettacolo da apocalisse.

Alle ore 5,21 del mattino, mentre la città stava ancora dormendo, avvolta in una fredda notte invernale, un terremoto della durata di trenta secondi circa, che raggiunse l’XI grado della scala Mercalli (corrispondente a 7,2 gradi della scala Richter) con epicentro nell’area dello Stretto, radeva al suolo la città di Messina mentre, poco dopo, un violento maremoto spazzava via tutto quello che la furia della natura aveva già distrutto e anche ciò che aveva risparmiato.
Il disastro, preceduto da uno spaventoso boato, si manifestò dapprima con un moto sussultorio della durata di 2-3 secondi, seguito da un moto ondulatorio di 7-8 secondi, completato infine da violentissime ondulazioni in senso contrario rispetto alle precedenti, con cui la città sarebbe stata rasa al suolo.
Dopo circa dieci minuti, il mare si ritirò spaventosamente per generare un maremoto dalla violenza bestiale, le cui onde raggiunsero un’altezza oscillante tra i 6 e i 12 metri, che andarono a infrangersi sulla città dilaniata; e dopo il grave sconquasso, si aggiunse l’ulteriore azione distruttiva degli incendi, causati dalla rottura delle tubature del gas e dei corti circuiti che completarono il quadro apocalittico.
Ovunque un silenzio assordante, di morte, a cui seguirono urla di disperazione e di aiuto.

Il fato di Messina si era compiuto.

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