La criminologia si è sempre interessata all’aggressività, in quanto fondamento emotivo e cognitivo di alcune condotte criminose, che sono sempre la risultante di un combinato disposto di elementi, che vanno da fattori bio-genetici, a fattori psicologici e sociali. Ma vediamo cosa sta alla base dell’aggressività umana.
L’aggressività è connaturata nell’essere umano. Questo non significa però che tutti gli esseri umani commettano reati in nome di quell’aggressività. Essa può essere canalizzata attraverso “espedienti” che non arrecano danni agli altri, trasformandola in qualcosa di costruttivo e di socialmente accettato (ad esempio attività sportive o artistiche); oppure può essere stemperata attraverso azioni “forti” che però non violano alcuna norma (come, ad esempio, alzare il tono di voce); infine, essa può sfuggire a qualsiasi forma di autocontrollo, degenerando in condotte criminose (dalle percosse fino agli omicidi).
Ma andiamo per gradi. Come affermò Konrad Lorenz nel 1973, l’aggressività è un istinto animale innato, che svolge un ruolo fondamentale per l’adattamento della specie, perché ne garantisce l’evoluzione. Se l’impulso aggressivo viene canalizzato, infatti, dà vita alla cosiddetta “aggressività benigna” (come la definì Fromm), che produce forme di espressione non solo positive ma anche fondamentali per l’individuo, perché da essa dipende la propria auto-affermazione che passa necessariamente attraverso altri aspetti: la competizione, la capacità di mettersi in discussione e di saper affrontare la vita con coraggio, l’abilità di saper superare i propri schemi (o blocchi) mentali. Ma se l’aggressività diventa un aspetto decontestualizzato, che porta a percepire come una minaccia tutto ciò che l’ambiente ci propone – facendo scattare un “campanello di allarme” ogni volta che percepiamo un pericolo imminente reale o immaginato – allora essa diventa “maligna” e, in alcuni casi, può diventare anche pericolosa.
Tra le innumerevoli teorie interpretative, che hanno avuto per oggetto lo studio dell’aggressività, si riporta quella di Dollard e Miller (1939), che attribuiscono ad un stato di frustrazione la base di una condotta aggressiva. Questa può dipendere sostanzialmente da due cause: la prima è l’impossibilità di raggiungere una serie di obiettivi prefissati, a causa di inabilità personali o di ostacoli esterni; la seconda è la formulazione di promesse da parte di qualcuno, a fronte di sacrifici personali, costantemente disattesa. In entrambi i casi, l’essere umano sviluppa uno stato interno di tensione (la frustrazione) che può scatenare una condotta aggressiva.
Occorre precisare che l’aggressività presuppone una chiara intenzione di nuocere l’altro; pertanto, l’assertività, la rabbia, l’ostilità o l’ambizione non rientrano in questa fattispecie, bensì in manifestazioni ed espressioni emotive assolutamente fisiologiche. Ma vediamo quanti tipi di aggressività esistono:
- attiva e passiva: il primo tipo si manifesta attraverso gesti eclatanti e plateali, che portano i più a considerarla maggiormente pericolosa; ma anche il secondo tipo arreca forti danni, perché attraverso una serie di comportamenti invisibili – che vanno dal rifiuto di prestare aiuto alla sordità rispetto alle esigenze degli altri – esprimono in egual modo rabbia e ostilità.
- diretta e indiretta: il primo tipo si concretizza in uno scontro diretto con l’interlocutore (fisico o verbale), mentre il secondo comunica per interposta persona o attraverso l’uso di oggetti o, ancora, attraverso la forma passiva del silenzio.
- autodiretta ed eterodiretta: il primo tipo si rivolge verso se stessi, il secondo tipo verso gli altri.
È dunque fuorviante ricondurre l’aggressività esclusivamente ad una lite violenta che sfocia in insulti e in percosse, perché questo significherebbe mettere a tacere e dare minore rilievo a forme di violenza altrettanto dannose, che però utilizzano modalità invisibili per esprimersi. Ma invisibili, ahimè, non sono gli effetti che queste producono. Questo è importante da sottolineare, perché un aspetto che spesso balza agli occhi di chi non si occupa di criminologia o di “mente”, è la repentinità o l’imprevedibilità di certe azioni violente – messe in campo da soggetti apparentemente calmi che, fino a quel momento, conducevano vite apparentemente normali – attribuendole al cosiddetto “raptus” o alla malattia mentale. La criminologia rifiuta drasticamente il concetto di “raptus”, come azione dannosa che viene messa in campo improvvisamente, senza una spiegazione e senza un evento-sentinella precedente; se così fosse, la vita sarebbe un campo di battaglia in cui, senza alcun preavviso, ti può esplodere una bomba sotto piedi in qualsiasi momento. Ed esclude anche il binomio aprioristico reato-malattia mentale, se si tengono in considerazione i dati che ci dicono chiaramente che gli autori di reato malati di mente sono nettamente inferiori rispetto agli autori di reato che non presentano alcuna patologia mentale. In realtà, quelle forme di violenza considerate impreviste, impulsive o inaudite e che vengono racchiuse sotto la voce di “raptus” o sotto quella di “follia” (ipotesi spesso di “comodo”, perché consentono allo spettatore di non interrogarsi a fondo) sono figlie di vissuti di frustrazione e di sofferenza inascoltati o sottovalutati per lungo tempo, in cui l’aggressività passiva e indiretta ha giocato, a gran sorpresa, un ruolo rilevante. Ed è ciò di cui parleremo nella prossima uscita.
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