Identikit del vittimista patologico: una bestia silente | scirokko.it

«Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare».

Sono i passi di Insciallah, un libro di Oriana Fallaci, che descrivono una condizione di sofferenza il più delle volte silente e invisibile: la sofferenza dell’anima.
Questa condizione non conosce status né etichettamento. La può provare colui che subisce ma anche colui che impartisce. La sofferenza dell’anima è una condizione il più delle volte taciuta, camuffata o ignorata e come un cancro si insinua negli anfratti più profondi per distruggere – indisturbato – tutto ciò che gli sta attorno. Fino a quando non c’è più niente da fare.
Questo è ciò che accade anche alla vittima di violenza psicologica, anche se il termine “vittima” rimanda ad una posizione marginale e passiva, e non renderebbe giustizia a ciò che accade realmente nelle dinamiche interpersonali. Le relazioni tra persone non vedono mai un solo attore in gioco, ma due o più, che attraverso una serie di input ed output, generano la relazione. Questo è fondamentale da sottolineare, sia per ricordare alle vittime che dalle situazioni di sofferenza si può sempre uscire, sia per evitare deresponsabilizzazioni di sorta che sono poi i peggiori nemici nelle dinamiche di fuoriuscita da relazioni malsane.
Per essere precisi, perché una relazione tossica venga messa in campo e portata avanti nel tempo, è fondamentale che le due parti in gioco risultino, in qualche modo, “complementari”. Là dove esiste una persona violenta, esiste una persona che subisce (e inconsapevolmente accetta e legittima) quella violenza. Nella forma fisica, che per definizione è più evidente e più eclatante, l’autore può non avere lunga vita: il problema appare in tutta la sua manifesta drammaticità, ha un nome e cognome e può essere percepito persino dalle persone che ruotano attorno alla vittima (o all’autore). Ma nel caso della violenza psicologica, la situazione è intangibile e la vittima stessa può trovarsi a non percepire ciò che subisce come una violenza: bisognerebbe stare attenti a tutti i segnali che lancia; ammesso che ne sia consapevole e che abbia intenzione di farli trasparire.


L’IDENTIKIT DEL VITTIMISTA PATOLOGICO

Nota anche come Sindrome di Calimero, quella del vittimista patologico è una modalità immatura di vivere la relazione e di affrontare la realtà, che si innesca quando il soggetto percepisce come non paritario il confronto con l’altro e quindi ricorre ad una “stampella” per reggere il confronto. Il vittimista patologico non si presenta mai come tale, bensì come vittima. Ma attenzione, esiste una differenza sostanziale tra una vittima e un vittimista: entrambi possono aver subìto disgrazie o ingiustizie più o meno gravi, ma il modo di reagire alle stesse è diametralmente opposto. La vittima può avere consapevolezza dell’ingiustizia che vive e la gestisce con se stessa, il vittimista non è interessato alla risoluzione del suo problema (laddove questo esista realmente) bensì alla sua strumentalizzazione. Questo gli consente di detenere una posizione di potere sull’altro, che alimenta infondendo sensi di colpa, strumentalizzando cose e/o persone che l’altro ha a cuore e toccando i suoi nervi scoperti e le sue parti deboli. E può tenerlo sotto scacco anche per tutta la vita. Il tutto senza applicare coercizione fisica, ma tessendo una invisibile tela che la vittima non percepisce immediatamente, ma solo quando sente di non potersene più liberare. Questa tipologia di autori di violenza può tranquillamente definirsi manipolatrice ed ha alcuni aspetti in comune col narcisista patologico.


QUAL É L’INTENTO DEL VITTIMISTA PATOLOGICO?

La messa in atto di comportamenti subdoli, finalizzati a non farsi scoprire e quindi a non rendersi attaccabili, ha il preciso intento di tenere in pugno le persone che manipolano (senza dargli la reale percezione che questo stia avvenendo) al fine di piegarle al proprio “progetto”. Diventano così tiranni relazionali perchè, facendo leva sul compatimento o sul senso di colpa dell’interlocutore, gli viene facile ottenere ciò che desiderano. Inoltre, il vittimista patologico vive ed alimenta condizioni di sofferenza fino a farle diventare il proprio habitat naturale, una barriera difensiva patologica senza la quale non sarebbe più in grado di andare avanti: generando senso di colpa e compatimento nell’altro e strumentalizzando problemi reali o fantasmagorici, attira verso di sè tutta l’attenzione. Non è un caso che, quasi sempre, la controparte sia una persona fortemente empatica. E non è un caso nemmeno il fatto che, nel momento in cui la vittima cerca di divincolarsi dai tentacoli di quella piovra, questa – nel terrore di vedere sgretolare quel malsano equilibrio sul quale ha costruito la sua intera esistenza – diventa aggressiva oltremodo e oltre ogni misura. Ed ecco il motivo per cui, in dinamiche di questo tipo, il primo nemico che la vittima deve combattere è se stessa, se non vuole consentire o prolungare la presenza di parassiti che si cibano della sua vita per sopravvivere. Come il parassitismo è una forma di simbiosi in cui il parassita trae vantaggio a danno dell’ospite, allo stesso modo la relazione tossica è una forma di simbiosi in cui l’autore di violenza psicologica trae vantaggio a spese di chi la subisce. Perché il parassita sopravvive là dove l’organismo che lo ospita è disposto a morire.

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