Se nel senso comune, ogni parola assume un significato preciso che risponde ad una specifica categoria e in quella rimane perimetrata, quando entriamo nel complesso ambito delle relazioni umane, ogni definizione sembra assumere connotati sempre meno categorici e suscettibili di molteplici interpretazioni.
Nel linguaggio comune, “vittima” è colui che subisce una sofferenza e “carnefice” è colui che la impartisce. Ne deriva che la vittima sia innocente e che il carnefice sia colpevole; che la vittima sia portatrice di sofferenza e che il carnefice ne sia la causa; che vittima e carnefice siano agli antipodi e non possano “incontrarsi”.
Ma quando si parla di relazioni – di qualsiasi natura esse siano – si parla sempre di legami, di emozioni, di comunicazione e, in qualche modo, anche di affetti; ci muoviamo, sostanzialmente, nel complesso mondo dell’irrazionale.
L’interazione vittima-carnefice non sempre risponde a leggi codificate dalla società, che li vorrebbero agli antipodi (per non dire nemici) ma a volte ha leggi proprie, che derivano in prima battuta dalla personalità delle rispettive parti in gioco. Ma non solo. Ad entrare in campo sono sicuramente altre innumerevoli variabili, che rispondono al contesto situazionale, alle circostanze, alle dinamiche, all’intensità e alla durata delle stesse, che condizionano irrimediabilmente i comportamenti dei protagonisti e che, di conseguenza, fanno sì che un evento sia suscettibile di cambiamenti.
La Sindrome di Stoccolma – convenzionalmente definita così nel 1973, dal criminologo Nils Bejerot e dall’agente speciale dell’FBI Conrad Hassel – è uno stato psicologico particolare, che si manifesta generalmente a seguito di episodi di aggressione, violenza o sottomissione, da parte della vittima nei confronti del suo aguzzino, e che può sfociare persino in sentimenti di amore.
Il termine è stato coniato a seguito di un famoso episodio avvenuto in Svezia, nell’agosto del 1973, quando due malviventi tentarono una rapina in una banca della capitale svedese e tennero in ostaggio, per 131 ore, quattro impiegati (vedi “23 agosto 1973. Stoccolma“).
Quello che accadde in quei giorni fu talmente particolare che conquistò l’attenzione dei media e, in seguito, venne analizzato dal mondo della criminologia che cercò di studiarne le origini e le motivazioni.
Sembrerebbe che, in quei giorni, le distanze tra i rapinatori e gli ostaggi si fossero annullate al punto tale che questi ultimi nutrissero sentimenti di paura nei confronti della polizia instaurando, invece, con gli aggressori uno strano legame di complicità. Questo legame potrebbe scaturire da quello che, lo psichiatra e psicoanalista Sandor Ferenczi prima, e la psicoanalista Anna Freud poi, definirono “identificazione con l’aggressore”, ossia un meccanismo di difesa per il quale la vittima, con l’obiettivo inconscio di gestire la paura che l’oggetto della sua sofferenza gli procura, lo introietterebbe, condividendone le modalità comportamentali. In tal modo, supererebbe il conflitto psichico causato dal vissuto angosciante, trasformandosi da parte debole a parte forte, da soggetto minacciato a soggetto minacciante: percepirsi parte attiva, per un soggetto, è più rassicurante che sentirsi in balìa degli eventi o della volontà altrui.
Durante un rapimento, oltre alla componente iniziale della confusione mentale – spesso caratterizzata dal diniego (“Non può essere vero, sarà un incubo”), dall’esame di coscienza (“Se mi venisse data un’altra occasione sarei una persona migliore”), dall’illusione di ottenere la liberazione e dalla frenesia degli eventi, si assiste a due momenti che risultano determinanti nella condizione psicologica che sta alla base di questa sindrome: la disumanizzazione della vittima e la regressione pre-edipica della stessa.
Essere in ostaggio è una condizione altamente traumatica e stressogena, che conduce la vittima a cercare nell’immediato un equilibrio che le garantisca di gestirla e di sopravvivere: in questa prima fase si cerca di entrare in contatto con il rapitore.
A causa del rapporto forzatamente ravvicinato con lui, si instaura un legame di dipendenza che rimanda ad una condizione di regressione infantile (pre-edipica), che ricorda quella di un bambino con i propri genitori. Incapace di bere, mangiare o fare cose di primaria importanza – in assenza della volontà dell’aguzzino – l’ostaggio può sviluppare quello che l’infante sviluppa nei confronti dei genitori: una forma di identificazione, di idealizzazione, di gratitudine e di amore.
L’ostaggio riprodurrà le stesse modalità comportamentali di un neonato: deve piangere quando vuole chiedere qualcosa, non può parlare, non può muoversi autonomamente, deve chiedere costantemente l’autorizzazione al suo aguzzino; di contro, il rapitore subirebbe una identificazione inversa per la quale, più un ostaggio si fa conoscere nella sua umanità e nella sua identità, più diventa difficile per lui fargli del male.
La Sindrome di Stoccolma, nonostante i media abbiano portato alla luce numerosi casi, non si sviluppa necessariamente ogni volta che un soggetto viene sottoposto a condizioni traumatiche di questo tipo. Esistono delle condizioni che favorirebbero l’insorgenza di questa particolare condizione psicologica e queste vanno rintracciate: nella presenza di un ambiente circoscritto condiviso dal rapitore e dall’ostaggio, nella durata e nell’intensità dell’esperienza (generalmente dal terzo giorno di prigionia, se tra rapitore e rapito c’è una vicinanza fisica costante, possono registrarsi i primi sentori di questo “legame”) e nell’assenza di violenza fisica. Non esistono invece distinzioni di sesso, età, nazionalità ed estrazione socio-culturale nell’insorgenza di tale fenomeno, anche se è stato osservato che si registra più raramente in quei soggetti dotati di personalità strutturate e forti e per questo capaci di adattarsi meglio, senza il bisogno di mettere in atto meccanismi di difesa. Pare che lo stesso si possa dire di quei soggetti che sono – in qualche modo – preparati all’eventualità di un episodio del genere, in virtù del lavoro che svolgono o della posizione che ricoprono, e in cui viene a mancare la componente “sorpresa”.
Per concludere, la Sindrome di Stoccolma sarebbe dunque una risposta emotiva al trauma subito, che consentirebbe alla vittima di sopravvivere in circostanze fortemente stressogene e angoscianti; ma questo processo di razionalizzazione può arrivare a protrarsi anche diversi anni dopo l’evento, diventando qualche volta anche un intralcio al lavoro svolto dalla polizia.
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