Prodotti e realizzati dalla crew, Space Donkeys, collettivo video di lavoratori dello spettacolo, tutti messinesi. Il primo video dura solo un minuto ed è uno spot realizzato per la campagna “Beni Invisibili”, promossa dalla Fondazione Telecom con l’intento di accendere un faro su alcuni dei tantissimi Beni Culturali italiani sconosciuti ed invisibili. Il secondo lavoro è un videoclip musicale dal sapore cinematografico, realizzato per una band messinese, i DemoMode. Questi i lavori proiettati ieri a Corto Stretto a firma di Alessandro Turchi, talentuoso regista messinese.
“Amo realizzare videoclip musicali perché credo sia un ambito in cui c’è più margine per la sperimentazione, ma anche perché per un videomaker è una bellissima sfida riuscire a dare una chiave di lettura diversa da quella che può essere suggerita semplicemente dalla musica o dal testo del brano. E, forse, anche un valore aggiunto”.
Da dove nasce la tua passione per il cinema e come l’hai coltivata?
Ho sempre amato il cinema. Il buio di una stanza illuminata solo dalla luce di un film in tv o il silenzio di certe vecchie sale che ormai non ci sono più sono sempre stati il modo migliore per rilassarmi o per trascorrere il mio tempo libero.All’indomani della Laurea in Ingegneria ho pensato che, forse, avrei potuto vivere di ciò che amavo piuttosto che lasciare che diventasse semplicemente un hobby. I miei amici non sapevano bene cosa regalarmi e chiesi loro di aiutarmi ad acquistare la mia prima videocamera. Avevo la fortuna di trascorrere un anno in Giappone per un progetto post-laurea e la acquistai lì, dove costava meno. Durante la settimana lavoravo in azienda e nei weekend, tra visite ai templi e notti tra i locali di Roppongi, facevo le mie prime sperimentazioni video.
Parlaci del tuo primo lavoro
Tornato dal Giappone, cominciai a mandare curriculum in giro per trovare un lavoro da ingegnere. Mi sentivo svuotato e andavo ai colloqui con la morte nel cuore. Fu in quel periodo che due cari amici, che lavorano in teatro e col video, mi spinsero a partecipare a un concorso di cortometraggi che aveva come tema i Beatles. Realizzai il corto “Sogno in un battito d’ali”, senza parole ma con il meraviglioso brano “We can work it out” come colonna sonora. Parlava di due scarafaggi dentro una scatola, di un sogno e di un volo, ma soprattutto della paura di volare, di prendere decisioni importanti che cambiano per sempre il corso della propria vita. Per la cronaca, vinsi il primo premio e non feci mai più un colloquio da ingegnere.
Parlaci della tua poetica
Poetica? E che ne so. Ho sempre pensato che Chaplin fosse il più grande di tutti, perché riesce a farmi ridere tantissimo, piangere e riflettere, tutto contemporaneamente. Credo che l’arte abbia il compito di fare da specchio: mostrare all’umanità cos’è l’uomo. Credo nel bello. E credo che la mia videocamera sia un’arma, con cui lottare e resistere.
Qual è l’aspetto tecnico-espressivo che privilegi e perché?
Sono attratto e incuriosito da tante cose e in questi anni di lavoro col video ho fatto quasi di tutto, dal corto al documentario, dalla videoart al video per il teatro o per la danza, passando attraverso il videoclip musicale. Tutte queste cose sono accomunate da quella che ritengo sia la vera anima del cinema e del video in generale, ossia il montaggio. D’altronde, l’immenso Kubrick sosteneva che il montaggio fosse l’unico aspetto del cinema che non fosse stato rubato alle altre arti. In fin dei conti credo di essere più bravo come montatore che come regista. Mi piace moltissimo montare sulla musica, riesco a sentirla davvero, come invece non riesco nella vita vera, dove non sono capace a tenere lo stesso tempo neanche per un minuto. Nel mio modo di montare, nei miei montaggi, c’è moltissima matematica, ma anche, spero, moltissime emozioni diverse.
In che termini la tua città è stata o è di ispirazione per il tuo lavoro?
Tra tutti i lavori che ho realizzato in questi anni, di sicuro il mio preferito è “Appunti per una Ricostruzione”, un corto a metà tra la finzione e il documentario, che parla di Messina, del terremoto del 1908 e di quello con cui i messinesi sono costretti a convivere tutti i giorni. Parla del Cavaliere Cammarata e della sua casa delle meraviglie distrutta dalle ruspe. Anche tutti i lavori realizzati all’interno del collettivo Machine Works e come Teatro Pinelli Occupato hanno sempre avuto come punto di partenza e d’ispirazione i luoghi abbandonati di questa città. Beh, mi sento di dire che la mia città, con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni, è la fonte primaria d’ispirazione per il mio lavoro.
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