C’è un’importanza di significato che la nostra vita psichica reclama, da qualsivoglia punto di vista ci si muova.
Lo è anche in tema di trattamento di fine vita. Lo stiamo osservando in questi giorni, al moltiplicarsi, a tratti accanito e pedissequo, dei dibattiti sulla scelta “del diritto sacrosanto di morire” di Dj Fabo.
Ciascuno è “toccato”, è tirato dentro la vicenda, è chiamato, ancorchè a una opinione, a una riflessione esistenziale profonda su nascita e morte, di per sé collegati nella logica del nostro inconscio. Anche per un attimo, ci si immedesima nella vulnerabilità della condizione umana, ci si mobilita a prenderne parte.
Questo sembra riflettere, al contrario, la mancanza nella nostra contemporaneità di un sano rapporto con la morte e la malattia come parte integrativa della vita, di uno spazio di elaborazione del lutto. Un vero e proprio tabù su quello che Freud chiamava “pulsione di morte” simbolizzato da Thanatos.
Opera invece, a livello individuale e collettivo, in maniera potente la negazione, un meccanismo di difesa del nostro apparato psichico che ci protegge dal sentire e provare angoscia (“se nego la morte, la morte non esiste”) ma ci priva anche della consapevolezza della realtà. Teniamo a distanza la paura e la sofferenza che ne conseguono. Solitamente come in chi, nella prima fase, apprende di avere una malattia terminale.
Proviamo a comprendere cosa “tocca”, qualche cenno alle dinamiche profonde che vibrano e si agitano dentro in tema di eutanasia. Con una piccola nota, senza predisporsi al giudizio in nessun caso e senza pretese esaustive.
Quello del malato terminale è un cammino psicologico complesso. Il malato che sceglie la “dolce morte” perde la corrispondenza, o meglio, il senso di continuità con la propria dimensione esistenziale (“la vita non ha più significato per me”); mette in atto un tentativo di blocco del processo di perdita di sé, caratterizzato dalla disintegrazione del corpo e delle sue funzioni e dalla rottura dei legami affettivi e sociali. Il dolore del morente irrompe come un evento traumatico e assume una dimensione totalizzante che abbraccia il corpo ma anche le sue emozioni, relazioni e spiritualità. Vi irrompe anche necessariamente un processo di separazione che coinvolge una lacerante rottura con i legami significativi della sua vita.
Essendo collassata la dimensione di progettualità del futuro, egli prova a esercitare illusoriamente il proprio controllo sulla vita e morte, decidendone tempi e modi.
Il messaggio sottostante e potente alla richiesta dell’eutanasia è un traboccante desiderio di vita, di sentirsi collegato, di trovare un senso alla sua vita anche nel momento del morire, di vedere un futuro, di sentirsi in una storia che continua e di trovare una risposta al suo desiderio di immortalità, come un eroe dell’antichità greca.
Janette Palella, Psicologo
in copertina la vignetta di Mario Natangelo.
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