«Era una persona normale, non può essere stato lui!». Quante volte abbiamo udito questa esclamazione, a seguito di un delitto in cui l’indagato o l’accusato era una persona – a detta di tutti – “normale”? É possibile che tutti coloro che arrivano a gesti così estremi siano, fino al giorno prima, persone dalla vita o dalla condotta indiscutibile?
Interrogarsi su un quesito del genere può non essere sempre facile, sia perché non tutti possiedono capacità analitiche necessarie per leggere e decodificare comportamenti complessi, sia perché l’essere umano tende ad incappare in quello che Hoffman definisce “errore fondamentale di attribuzione”. Gli uomini tendono ad attribuire la causa delle azioni delle altre persone (ma non delle proprie!) alle loro inclinazioni interne, partendo dalla convinzione che la sofferenza vissuta dagli altri sia, in parte, responsabilità di chi la subisce (es.: camminava da sola in una strada isolata, per questo è stata aggredita). Questa convinzione non è nient’altro che un meccanismo difensivo che ci dà l’illusione di vivere in un mondo giusto, fatto di potenziali pericoli che, attraverso una condotta corretta, siamo però in grado di evitare (es.: se non avesse camminato in quella strada isolata non sarebbe stata aggredita → io non cammino in strade isolate e quindi non verrò aggredita). Inoltre, venire a conoscenza di un episodio di violenza e condannare l’autore – prima ancora che lo faccia un tribunale – è un bisogno impellente che la collettività percepisce come un dovere morale; il “giudicante” si sentirà a posto con la propria coscienza e si collocherà dalla parte dei giusti (vedi Il fascino del male). Traumatico sarebbe per lui riconoscere o affermare che la sofferenza (vissuta o arrecata) non sempre appartiene ai famosi “altri” e che anzi, a volte, coinvolge in prima persona la propria vita o il proprio contesto.
Per tornare al quesito iniziale, dunque, la risposta corretta sarebbe la seguente: se si leggesse la realtà con una lente di ingrandimento, conservando una lucida obiettività, evitando di incappare in errori di valutazione e in forme di banalizzazione e non perdendo mai sensibilità e capacità empatica, forse ci si accorgerebbe che il mostro – che viene spesso sbattuto in prima pagina nei giornali – non ha le corna e una coda lunga come Lucifero, ma è un uomo come tutti gli altri: con due occhi, un naso, una bocca e una vita normale come quella di milioni di altre persone. Fin troppo normale, anche. Ammettere questo, forse, significherebbe affrontare le conseguenze di una inevitabile tempesta di domande a cui si vorrebbe dare una risposta diversa: «se chi è riuscito ad uccidere è una persona come me, allora anche io potrei essere in grado di farlo?». La risposta affermativa alla domanda porterebbe, chi se la pone, a guardare con occhi diversi un familiare o, addirittura, se stesso davanti allo specchio, con la conseguente messa in discussione della sua vita e delle sue certezze. E sarebbe crisi.
Ma c’è una buona notizia. Ribadendo che la criminologia, così come la psichiatria, non riconoscono il concetto di raptus, quelle persone considerate “normali” fino al giorno prima del misfatto e poi bollate come “malate” a seguito dello stesso, non necessariamente soffrono di una patologia mentale; può succedere che, a seguito di profondi stati di sofferenza protratti nel tempo, sviluppino vulnerabilità o disturbi di personalità che, di fronte all’ennesima frustrazione, degenerano in acting out.
Quante volte sentiamo in televisione o leggiamo nei giornali che il movente di un omicidio è la gelosia o una lite insignificante durante una riunione di condominio? L’episodio di gelosia o la lite con il vicino di casa sono solo il pretesto attraverso il quale si slatentizzano forme di rabbia, rancore, frustrazione, tensione non sempre espresse con le forme dell’aggressività attiva, ma spesso manifestate attraverso quelle invisibili e subdole dell’aggressività passiva (vedi Cos’è l’aggressività, come si manifesta e fin dove può arrivare). Nessuno si accorge di nulla, anche per lunghi anni (come se ci si aspettasse che la sofferenza interiore debba necessariamente assumere forme grottesche e plateali) ma nel frattempo, come una goccia nella roccia, la sofferenza scava solchi profondi. Il pretesto banale diventa l’occasione perfetta per farla uscire fuori e, quando questo accade, spesso, è già troppo tardi.
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