La famiglia uccide più della mafia e della criminalità comune.
Che le mura domestiche non siano soltanto un luogo di amore e di protezione è ormai un fatto appurato dalle ricerche criminologiche in merito e dagli innumerevoli fatti di cronaca nera che riportano, con frequenza preoccupante, episodi di violenza che spesso culminano in un omicidio.
Ed è proprio tra le mura domestiche – che nell’immaginario collettivo sono il luogo dove ci si spoglia di ogni sovrastruttura e si allentano le inibizioni e in cui si ricerca calore e sicurezza – che si consumano i delitti più efferati: genitori che tolgono la vita ai figli (figlicidio), coniugi che si uccidono (uxoricidio), figli che massacrano chi li ha messi al mondo (patricidio e matricidio), assassinii tra fratelli (fratricidio).
Parlare di “raptus”, in episodi del genere, è quanto di più sbagliato si possa fare. L’omicidio familiare non è mai frutto di un momento di follia, ma è piuttosto il tragico epilogo di un vissuto di sofferenza spesso sottovalutato o minimizzato.
La violenza che vede come teatro la famiglia può essere di varia natura; l’omicidio rientra nella fattispecie della violenza fisica ma, spesso, esso è soltanto l’epilogo di altre forme di maltrattamento consumate all’interno delle mura domestiche (ancora oggi, spesso, impenetrabili) in cui si registrano episodi di violenza economica, psicologica o sessuale.
Contrariamente a quanto i mezzi di informazione ci fanno pensare, gli omicidi familiari non sono in aumento, ma restano costanti nel tempo. Questo ci fa riflettere sul fatto che la casa, da sempre considerata universalmente un approdo sicuro, può rivelarsi invece il posto più pericoloso. Ma la spiegazione è piuttosto logica, se consideriamo che si tratta del luogo in cui trascorriamo la maggior parte del nostro tempo, a contatto con le persone verso cui coltiviamo le passioni più profonde e le aspettative più alte.
L’omicidio familiare, nelle diverse zone del nostro Paese, rimanda a tipologie motivazionali differenti. Nel Mezzogiorno è quasi sempre figlio di conflitti culturali dovuti al passaggio da un modello di famiglia patriarcale – in cui l’uomo rappresentava il fulcro decisionale – ad uno più paritario – rivendicato per lo più dai giovani; queste tensioni vengono acuite da convivenze “forzate”, dovute alla difficoltà – da parte dei giovani – di trovare un’occupazione che gli permetta di emanciparsi e di fuoriuscire dal nucleo familiare. Nel Settentrione, invece, si registra una maggiore frequenza di omicidi di tipo “passionale”, in cui è quasi sempre la donna a incontrare la morte, più frequentemente in fase di separazione o nei mesi immediatamente successivi alla stessa, per l’incapacità di accettare o elaborare l’abbandono da parte dell’uomo.
La delittuosità in famiglia, nella maggior parte dei casi, ha come protagonista un uomo che uccide una donna. L’uxoricidio a danno della donna (per cui è stato coniato il termine “femminicidio”) registra dati allarmanti e, nella gran parte dei casi, si tratta di morti annunciate: una donna, ogni due giorni, perde la vita per mano del suo attuale o ex-compagno e 7 delitti su 10 avvengono in famiglia (rapporto Eures 2013).
È importante sottolineare come spesso le vittime, prima di incontrare la morte, siano state sottoposte a episodi di violenza reiterati nel tempo (alcune volte denunciati ma sottovalutati) e poi culminati nell’evento delittuoso che, in tal senso, rappresenta sempre la chiusura di un cerchio.
La violenza in famiglia, qualsiasi sia la sua natura e qualunque sia il movente, indipendentemente dal fatto che la vittima sia una donna o un uomo, è sempre la dimostrazione di un fallimento: un vissuto di sofferenza sottovalutato, un grido di aiuto inascoltato e una tragedia che, forse, si sarebbe potuta evitare.
È triste constatare che gli omicidi più efferati avvengono tra le mura domestiche.