La crudeltà è insita in noi? L’esperimento del carcere di Stanford | scirokko.it

L’esperimento del carcere di Stanford è probabilmente il più sconvolgente mai effettuato nell’ambito della psicologia sociale, ancora oggi lungamente discusso e intriso di chiaroscuri.
La sua finalità era quella di studiare il comportamento umano – partendo dalla Teoria della deindividuazione di Gustave Le Bon – secondo cui il singolo individuo tende ad identificarsi col suo gruppo di appartenenza, perdendo così la propria identità personale e dando vita a impulsi antisociali.

Nel 1971, il Professor Philip Zimbardo, con alcuni collaboratori dell’Università di Stanford, ha voluto studiare gli effetti psicologici che scaturiscono dal diventare prigionieri o dal trovarsi a rivestire il ruolo di “guardie carcerarie”. Allestito un carcere simulato, nei sotterranei dell’Università, vennero scelti 24 studenti maschi, di ceto medio e poco inclini ad atteggiamenti devianti, poi divisi casualmente nei ruoli di prigionieri e di “carcerieri”.

Effettuato l’ingresso in carcere, venne praticata la prassi usuale: i detenuti vennero perquisiti, denudati e vestiti con una divisa su cui era applicato il numero della matricola; alla caviglia destra gli venne posta una catena di cui non si sarebbero potuti disfare nemmeno la notte e sulla testa un berretto di plastica. Inoltre, una rigida serie di regole doveva controllare il loro comportamento.

Le guardie, che si alternavano in tre turni da otto ore, indossavano una divisa color cachi, occhiali scuri (per nascondere le loro emozioni ai detenuti) e venivano muniti di fischietto, manette e manganello. Se i detenuti dovevano attenersi ad una serie di rigide regole, loro invece avevano libertà di azione che incontrava, come unico limite, il non attentare all’integrità fisica dei detenuti.

La deindividuazione ebbe inizio; e così anche l’esperimento, con telecamere e citofoni che monitoravano la prigione.

Il primo giorno, la situazione sembrava piuttosto tranquilla; il clima che si respirava era ben lontano da quello di un carcere. Le guardie erano impacciate e non sapevano gestire la loro autorità, sentendosi piuttosto a disagio. Ma il secondo giorno, un avvenimento sorprese tutti: i detenuti misero in scena una rivolta, prendendo in contropiede ricercatori e carcerieri, e cominciarono a denudarsi, a inveire contro le guardie, mentre una parte tentò di evadere dalla prigione. La sommossa divenne ingestibile e per placarla le guardie ricorsero all’uso di estintori che spruzzavano anidride carbonica; poi entrarono nelle celle, denudarono i detenuti e misero in isolamento coloro che erano considerati i responsabili della rivolta, privandoli della possibilità di nutrirsi, di lavarsi e di andare in bagno dopo le dieci di sera.
La situazione iniziava a diventare pesante.

Un detenuto cominciò a soffrire di crisi di pianto improvvise e di attacchi d’ira, per cui venne liberato. Ma il fatto particolare fu che, una volta libero, escogitò un piano: avvalendosi dell’aiuto di rinforzi, sarebbe tornato nel carcere e avrebbe permesso ai prigionieri di evadere. Le guardie carpirono questa strategia dalle parole di alcuni detenuti, per cui la loro reazione fu violentissima: i prigionieri furono costretti a eseguire esercizi fisici punitivi, a intonare canzoni umilianti, a pulire i bagni a mani nude. 

Questa forte pressione psicologica ed emotiva sortì effetti devastanti: i detenuti mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale, diventando docili, passivi e con chiari disturbi emotivi; le guardie, invece, entrarono in una spirale di sadismo e crudeltà, da cui non riuscivano più a uscire, nemmeno quando venne loro comunicato che il “gioco di ruolo” si era concluso.

L’esperimento, che inizialmente sarebbe dovuto durare 14 giorni, si concluse il sesto, tra la preoccupazione e lo sgomento dei ricercatori. La prigione finta era diventata una prigione vera e gli studenti si erano perfettamente “istituzionalizzati” entrando nel ruolo che gli era stato conferito e non riuscendo a porre fine a questo crescendo drammatico.
Lo stesso Zimbardo dichiarò più tardi in un suo libro: «Solo poche persone sono in grado di resistere alle tentazioni fornite dal potere e dal dominio su altri soggetti. Io stesso scoprii di non far parte di questa ristretta schiera».

Il fenomeno della deindividuazione è stato chiamato in causa anche per spiegare altre forme di brutalità; tra tutte, il comportamento delle SS nei campi di concentramento nazisti.

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