Nawal, l’angelo dei profughi

Se sei una giovane donna di 27 anni, la tua famiglia è marocchina e il tuo nome arabo, Nawal Soufi, ma vivi in Italia, a Catania, da quando avevi un mese, la tua vita non è molto diversa da quella delle tue coetanee di origini italiane. Nawal è una normalissima ragazza che si divide tra studio e lavoro, ma che porta in sé la ricchezza di un doppio patrimonio linguistico e culturale.
È questa peculiarità che l’ha catapultata, suo malgrado, nella tragedia dell’immigrazione, facendola diventare un punto di riferimento fondamentale per il popolo di uomini, donne e bambini continuamente costretti a lasciare le proprie terre, per fuggire da guerra, violenza, miseria e cercare la Vita in Europa. Il tutto tramite un numero di cellulare, un cellulare vecchio di dieci anni, ma che ha salvato innumerevoli vite.
Accade infatti che il numero di Nawal, pubblicato su facebook, diventa, tramite uno spontaneo passaparola, un faro per i migranti che rischiano il naufragio a bordo di imbarcazioni nel mezzo del Mediterraneo o, come è sempre più frequente, nella rotta verso la Grecia. A lei possono, in arabo, comunicare le coordinate del punto in cui si trovano. Tramite lei si attivano i salvataggi. Le chiamate arrivano costantemente, a qualsiasi ora del giorno e della notte. E Nawal si attiva anche a sbarco avvenuto, fornendo ai migranti informazioni, cibo, vestiti.
È sempre a Nawal che si rivolgono, dalla Siria o dal Nord Europa, i parenti di persone che si sono messe in mare, per avere notizie dei loro cari. E così le spetta anche questo ruolo, difficilissimo, di mettersi alla ricerca dei dispersi e di comunicare a un genitore se il proprio figlio è sopravvissuto, o è ormai un corpo in fondo al mare.
Lady SOS per il Times, Mama Nawal per i migranti, Nawal Soufi svolge un’attività di primaria importanza, che si inserisce in una voragine istituzionale (la guardia costiera non ha un interprete arabo). Lei tuttavia non vuole essere considerata un’eroina. Questo, dice, è per me uno stile di vita.
La sua storia, raccolta nel libro “Nawal, l’angelo dei profughi” dal giornalista Daniele Biella, nawal copertinaè stata al centro di due incontri lo scorso venerdì a Messina, promossi dalla libreria Paoline, dagli Istituti Religiosi della Diocesi, dall’Associazione “Baobab”, dall’Associazione “Paoline Comunicazione e Cultura”, dalla Caritas e dalla Migrantes, organismi pastorali dell’Arcidiocesi. Il primo, rivolto ai ragazzi delle scuole nella Casa di ospitalità Collereale e il secondo aperto a tutta la cittadinanza nella sala convegni del PalaCultura. Un importante momento di riflessione quest’ultimo, ricco di testimonianze, tra le quali quella dell’autore del libro, che da dieci anni segue il tema delle migrazioni, dei promotori dell’iniziativa e di alcuni protagonisti dell’accoglienza ai migranti nella nostra città. Non sono mancati i dati drammatici sul fenomeno migratorio, offerti dal direttore dell’Ufficio diocesano Migrantes, diacono Santino Tornesi, numeri impressionanti, che ci interrogano con forza. Facciamo abbastanza come Paesi, ma anche come semplici individui, di fronte a questa tragedia incessante? La risposta ce la da Nawal, che da sola, è stata salvezza per centinaia di persone. Momenti toccanti, con la proiezione del video di un salvataggio di migranti in mare e i canti del Coro multietnico dell’Ufficio diocesano Migrantes, hanno scandito la riflessione. Mentre ancora, a livello nazionale e internazionale, governanti e comuni cittadini si dividono tra rifiuto e accoglienza, tra muri innalzati e aiuti concreti, emerge quanto sia sempre più importante informare, raccontare il nuovo Olocausto di cui siamo testimoni. Un racconto che si sviluppi con tutti i mezzi a nostra disposizione: parole, immagini, ma anche arte, musica, poesia, che a volte meglio riescono ad aprire le porte dell’anima.
Ne sono un esempio i versi dello scrittore togolese Kossi Komla-Ebri, citati nel corso dell’incontro, che riportiamo.

“Forse il cielo non lo sa

ma la terra è coperta di passi.

I passi riluttanti di chi parte

Per cercare una casa.

Perché la casa non è solo

là dove sei nato

ma è dove l’uomo che è in te può guardare il cielo

finalmente grato per il giorno che finisce

e può sperare nel giorno che verrà.”

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