Parlare agli animali: fino a che punto ci capiscono?

Non è raro notare nelle nostre passeggiate, per strada, nei negozi, nei pochi spazi verdi della città persone che intrattengono lunghe discussioni con i propri animali. Sui social appaiono sempre più numerose le immagini di cani, gatti, pesci rossi ed altri, esotici o addomesticati, con status e commenti che cercano di rappresentare i pensieri dell’animale, o, ancor di più, da veri e propri profili. Questi comportamenti sembrerebbero corrispondere ad un tentativo di antropomorfizzazione dell’animale, nutrito, dal punto di vista psicologico, da un importante “investimento affettivo” (ne è un esempio considerarsi “genitori” dei propri animali).

Non ci sono dubbi, neanche scientifici, sugli effetti benefici della loro compagnia. Di recente si è anche discusso sulla possibilità di introdurre gli animali domestici in ospedale, durante i periodi di degenza, pur rimanendo aperto il dibattito sulle questioni igieniche e sanitarie. Ormai da anni vengono condotte con successo vere e proprie terapie psicoriabilitative indirizzate a bambini, ma anche adulti, con evidenti miglioramenti nello stato di salute psico-fisica.

Stare con gli animali ci fa bene. Ma quali sono le basi che consentono la comunicazione fra uomo ed animale? E fino a che punto i nostri pets sono in grado di comprenderci?

I più recenti studi di neuroimaging funzionale (registrazione dell’attività cerebrale, ndr) hanno trovato, comparando il cervello umano e quello del cane, che, alla presenza di stimoli uditivi e vocalizzazioni con diverse intensità emotive, il cervello degli animali, analogamente al nostro, attiva le aree laterali della corteccia uditiva, in misura maggiore quando il tono è positivo.

Questo significherebbe che gli animali sono in grado di recepire la tonalità affettiva che diamo alle nostre frasi. Tuttavia ciò non dimostrerebbe la comprensione del linguaggio. Gli esperimenti sui primati per l’apprendimento di parole si sono mostrati, infatti, fallimentari: gli animali non dispongono di un apparato fonatorio evoluto, delle aree cerebrali deputate alla comprensione e alla produzione del linguaggio e quindi della possibilità di costruire una comunicazione, ovvero un sistema di simboli e significati. L’unico animale che sembrerebbe fare eccezione è il pappagallo, ma le sue abilità si limitano all’imitazione e alla riproduzione di suoni, nonostante il sentirli “parlare” desti sempre un certo stupore.

E’ possibile affermare che naturalmente gli animali comprendono più facilmente i propri simili. Tanto è vero che, nell’esperimento precedente, i cani erano molto più ricettivi ai suoni di altri cani – interspecifici – piuttosto che alla voce umana e, viceversa, i soggetti umani rispondevano con una attivazione maggiore alle vocalizzazioni di altri umani.

Il loro comportamento così ricettivo agli stimoli emotivi, che ci da la sensazione di essere capiti, sembrerebbe spiegato dalla recente scoperta nei cani (nello specifico pastore tedesco e border collie, ndr) di un gene per il recettore dell’ossitocina, soprannominato “l’ormone dell’amore”, il quale ha un ruolo fondamentale nella formazione di legami sociali ed affettivi e nella riduzione dello stress.

Se ne deduce che non è tanto il contenuto di ciò che diciamo ad essere trasmesso, ma piuttosto l’emozione vincolata dal linguaggio. I nostri animali ci comprendono sulla base dell’intenzione di comunicare con loro, ma soprattutto attraverso la comunicazione non verbale, cioè attraverso tutti quegli aspetti espressivi (tono di voce, postura, gestualità, espressioni del viso etc.) che non sono altrimenti ascrivibili al contenuto del messaggio stesso.

Appurato che non è tanto importante cosa si dice, ma come lo si dice, si può dire che gli animali, seppur meno evoluti, possono insegnare qualcosa di molto utile anche a noi umani.

Amelia Rizzo

07/01/2015

* Ringrazio per il contributo intellettuale la Dott.ssa Lucia Della Villa, Psichiatra, Psicoterapeuta e Membro dell’Associazione “Pet Therapy e Bioetica animale” http://www.pet-therapybioetica.org/

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo

Amelia Rizzo, classe 1986. Si laurea in Scienze Cognitive e Psicologia presso l'Università degli Studi di Messina. Collezionista di titoli, a causa della sua passione per la Ricerca viene condannata a tre anni di Dottorato, ma pare ne abbia già scontato la metà. Chiamata a curare la rubrica di #psycologia, non ha potuto rifiutare questa insolita richiesta d'aiuto.
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