Riflessioni sull’abitare nomade: l’architettura dell’accoglienza e dell’emergenza

Le rivoluzioni sociali ed economiche passano sempre attraverso una rivoluzione delle modalità abitative, e in virtù di ciò possiamo dire che la dimensione abitativa contemporanea sia il nomadismo, non solo per ragioni di disperazione, catastrofi naturali, esilio volontariamente politico, ma anche per ragioni di studio e lavoro grandi masse di persone di età ed estrazioni culturali e sociali diverse si spostano per il mondo. Mobilità e Nomadismo sono dunque le due facce della stessa medaglia che se da un lato richiamano alla mente idee di velocità, dinamismo, versatilità, dall’altra portano inevitabilmente con se una forte idea di sradicamento, spesso connaturata alla violenza del dramma umano cui lo spostamento è legato e di cui l’architettura deve dare profonda lettura.

Le soluzioni elaborate dalla seconda metà del ‘900 fino ad oggi sono molteplici e diverse, basti pensare a paraSITE di Michael  Rakovitz  una sorta di sacco a pelo gonfiabile che si collega direttamente agli  scarichi d’aria calda degli edifici, diventando una risposta mobile e semplice per offrire calore e riparo ai senzatetto. Un altro esempio che ha fatto scuola in materia di risposta rapida all’emergenza, sostenibilità ed economicità sono le Log Houses di Shigeru Ban utilizzate per il terremoto di Kobe del 1995. Le case di tronchi di carta  con una superficie coperta di 16 mq  su pianta quadrata  4x4m,  poggiano su un basamento costituito da un insieme di cassette di lattine di birra riempite di sacchi di sabbia, il pavimento è costituto da un tavolato di legno posto su uno strato di tubi di cartone,  adagiati su  un insieme di travi rompitratta protette da uno strato di spugna per salvaguardare gli elementi dall’eventuale umidità di risalita. La struttura in elevazione è realizzata con tubi di cartone ed  impermeabilizzata attraverso l’impregnazione con poliuretano liquido, la copertura cerchiata attraverso un sistema ligneo è composta da due tende, una orizzontale che ha la funzione di copertura e una inclinata in modo da creare un’intercapedine d’aria con funzione isolante. L’architetto e designer James Furzer di Spatial Design Architects ha progettato un  rifugio per accogliere temporaneamente chi si trova a dover vivere per strada: si tratta di strutture “parassite” che sfruttano gli edifici esistenti. Tali capsule abitative, sopraelevate dal piano stradale e addossate agli edifici, prevedono un letto, delle mensole e una scaletta esterna mobile per l’accesso.

 Tuttavia la risposta più interessante degli ultimi anni nasce da Cherubino Gambardella, e dalla collaborazione tra l’architetto e la fondazione Plart, e coniuga l’esigenza di risposta a situazioni di emergenza con i valori etici ed estetici di cui l’architettura è veicolo. I Plastic Villages sono costituiti da un modulo abitativo  di prima accoglienza in plastica e legno pensato per la sua integrazione anche all’interno di contesti urbani complessi e compositi. Contro la logica dei campi/ghetti di accoglienza, l’architetto elabora una soluzione esteticamente problematica e dissonante ma capace di instaurare un dialogo con l’esistente ponendo delle domande e dando una risposta chiara al problema dell’integrazione, che potrebbe essere anche una soluzione per dare riparo ai senzattetto. Come afferma lo stesso Gambardella: « Non voglio la favelizzazione dei centri urbani ma un’aggiunta anche dissonante che possa essere una scossa per certe ritualità della nostra città che è racchiusa nella dissonanza tra la rapacità delle periferie e lo snobismo della borghesia».

Scritto da Davide Basile per adspazio.it

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