Solo un valido motivo può spingere un essere umano ad affrontare il mare in piena notte, sfidando il destino ad una roulette russa che molte volte non perdona.
La furia del mare non conosce pietà; non distingue un bambino da un adulto, una donna da una imbarcazione. Il mare è imparziale, mai razzista, non attribuisce valore. Quel valore che, invece, conoscono bene sulle coste africane, dove spesso l’imparzialità e la pietà sono sconosciuti agli occhi di uno scafista: è come se ciascun individuo nascesse con un prezzo marchiato a fuoco sulla pelle. Vali quello! La tua vita vale tanto!
Ma quando conosci la disperazione, perché solo quella può spingere a tanto, accetti il tuo valore e paghi a testa bassa.
Tremila euro è il valore attribuito da un qualche dio sceso in terra a Omar, 15 anni, egiziano.
Nella sua città era, come si definisce lui stesso, un bravo carpentiere: a soli 8 anni costruiva palazzi, si arrampicava sulle impalcature e osservava dall’alto la città in cui era nato, Tanta. Doveva farlo. Doveva lavorare e contribuire al sostentamento della famiglia. La sera tornava a casa stanco ma con i soldi in tasca da consegnare agli adulti.
“Sapete cosa significa avere 8 anni ma comportarsi da adulto? No, spero non lo sappiate” ripete più e più volte. Quel piccolo uomo costretto ad atteggiarsi da grande sognava tutto quel che in Italia risulta scontato, banale, quasi noioso. Desiderava, e meritava, la spensieratezza di un bambino: andare a scuola, giocare a pallone con gli amici, spegnere le candeline al compleanno, scartare un regalo, correre. Già, correre. Non scappare!
E invece ad un certo punto la fuga sembra l’unica soluzione, la svolta come dice lui.
Saputo da un amico che durante la notte sarebbe partita una nave per l’Italia, i sogni del piccolo grande Omar sembrano quasi prendere forma davanti ai suoi occhi: la nostra Italia la sua America, che gli avrebbe permesso di vivere a pieno la sua infanzia.
Non poteva immaginare che in mare, quella notte, ad aspettarlo non ci sarebbe stata una nave ma un barcone fatiscente e che, a bordo di questo, avrebbe trascorso i 10 giorni più lunghi della sua vita.
Omar era stato assegnato alla stiva, la parte più bassa di una imbarcazione, quella destinata a contenere le merci per intenderci.
10 lunghi giorni, di cui 3 senza acqua né cibo. 10 lunghi giorni senza luce, in cui hai paura, sei stanco, non parli con le altre 350 persone presenti sul barcone, perché l’ossigeno è importante e devi conservare le forze per i giorni successivi, per lo sbarco, per un qualsiasi imprevisto. Piangi, sopporti, preghi. Ti manca l’aria nei polmoni ma nonostante tutto stringi i denti confidando nel tuo dio e nella tua America. Devi.
“Spesso la gente mi chiede perché ho lasciato il mio Paese. Non è facile, soprattutto da soli a 15 anni, salire su un barcone e sperare di non morire. Ecco, io rispondo dicendo che ho lasciato il mio Paese per vivere!”.
Omar è consapevole di aver visto e rischiato la morte e ripete a se stesso che mai più permetterà alla paura di prendere il sopravvento, “voglio essere un uomo”.
Finalmente, dopo 10 giorni di mare, paura e fame, la guardia costiera italiana porta in salvo il barcone e poco dopo i naufraghi toccano terra. Il cielo sopra la Sicilia non era poi così diverso da quello egiziano e i colori sembravano essere gli stessi, ma finalmente si poteva respirare un’aria diversa, carica di aspettative, di benessere.
In realtà Omar, come migliaia di ragazzi che arrivano in Italia, è sballottolato da un centro d’accoglienza all’altro. Non chiedeva, né voleva, l’impossibile ma pretendeva il rispetto della sua dignità di essere umano. Sì, pretendeva, perché non è concepibile che ad un minore vengano negati vestiti, scuola o pocket money previsti dallo stato ospitante. Era un clandestino, è vero, ma pur sempre un essere umano, ancora di più un bambino, e non accettava la superficialità di chi, invece, avrebbe dovuto prendersi cura di lui.
Decide allora di scappare dalla Sicilia, dall’Italia che tanto aveva sognato. Poteva sembrare un’impresa titanica raggiungere la Germania, soprattutto se alla debolezza, alla paura e alla distanza si aggiungono la nullatenenza e l’impossibilità di comunicare in un Paese di cui non si conosce la lingua. Eppure ce la fa.
La terra tedesca lo accoglie come fosse una calda culla rassicurante in cui gli adulti continuano a ripetere di stare tranquillo, che adesso si sarebbero occupati loro di lui. E così è stato. O almeno fino ai suoi 18 anni. Infatti, secondo la legge lo straniero che registra le proprie impronte digitali in un Paese non può allontanarsene. Questo significa che presto Omar sarebbe stato rispedito in Italia; ma lo stivale non è l’America che aveva sognato.
Attraverso dei contatti italiani scopre, inoltre, la scadenza imminente del permesso di soggiorno e la necessità di rientrarvi velocemente per rinnovarlo ed evitare così il rischio di un possibile rimpatrio.
Omar, da solo e senza soldi ma con più coraggio rispetto alla prima volta, è costretto ad intraprendere un nuovo viaggio della speranza. Allontanato da tre treni perché senza biglietto, riesce a superare il confine nascosto sotto la cuccetta di un mezzo ferroviario.
Questa volta l’Italia sembra volerlo premiare. Rinnova il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ottiene i documenti necessari, l’adozione da parte di una famiglia messinese attenta e amorevole, comincia a studiare e ottiene la licenza media.
Oggi Omar ha 19 anni, frequenta la scuola superiore serale, lavora come traduttore al fianco della squadra mobile in occasione di nuovi sbarchi e come mediatore culturale in una cooperativa sociale. Aiuta i suoi connazionali e ringrazia ogni giorno l’Italia per averlo salvato, per avergli dato fiducia, per la possibilità di vivere una vita dignitosa o più semplicemente per avergli concesso una vita, in cui con impegno giornaliero ha potuto e può tutt’ora realizzare il proprio sogno: studiare, lavorare, esistere, come un ragazzo della sua età.
“Adesso aiuto il Paese che mi ha aiutato e questo mi rende orgoglioso. Mia mamma, la mia madre italiana, dice che un giorno andremo in Egitto e io so che sarà bellissimo perché andrò con la mia famiglia, perché io non sono più solo”.
Jessica Calandra Sebastianella
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