Terrorismo: quando si concludono le stragi proseguono i media | scirokko.it

«L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili» è la definizione che l’enciclopedia Treccani dà del termine terrorismo.
In realtà si tratta di un fenomeno tutt’altro che facile da definire, perché molto complesso e ricco di sfaccettature che lo fanno sfuggire ad una definizione universalmente accettata.
Il Consiglio d’Europa, nella Decisione Quadro del 13 Giugno 2002, inquadra l’organizzazione terroristica come un’associazione strutturata di due o più persone, stabilita nel tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere dei reati terroristici. Essa viene concepita come una combinazione di elementi oggettivi (attentato alla vita o all’integrità fisica delle persone, cattura di ostaggi, estorsioni, attacchi di varia natura, minaccia di realizzare uno di questi comportamenti, ecc.) e di elementi soggettivi (atti commessi al fine di intimidire gravemente la popolazione, destabilizzare o distruggere le strutture di un Paese o un’organizzazione internazionale, oppure costringere i poteri pubblici ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto). Dunque, l’atto terroristico è il mezzo attraverso il quale l’organizzazione che lo mette in campo cerca di far crollare le fondamenta dell’organizzazione politica e sociale vigente.

Il sociologo canadese Marshall McLuhan sosteneva che «il terrorismo è un modo di comunicare. Senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo» e infatti, per queste forme di crimine, la violenza fattiva cammina di pari passo con la violenza comunicata, che acquista una finalità importante: diffondere una sensazione di paura e un senso diffuso di insicurezza, non solo nell’establishment ma anche (e forse soprattutto) tra la popolazione civile. I semplici cittadini – gente comune che viene colpita mentre svolge le sue normali attività di vita quotidiana – si sentono colpiti nella loro intimità senza una ragione precisa; ed è questo il motivo per cui, dopo ogni azione terroristica, tornare alla vita normale è quanto di più impensabile possa esistere.
Una delle finalità dei gruppi terroristici è esattamente questa: dar vita a gesta eclatanti e spettacolari – che colpiscono la normalità – la cui eco si ripercuote nel tempo, entrando anche nelle case e nelle vite delle persone che non sono state coinvolte in prima persona. Al terrorismo in sé e per sé si aggiunge il terrorismo mediatico che, nel garantire l’informazione e la diffusione della notizia, si trascina con sé anche la propaganda ideologica; ed è questa la finalità intrinseca di questa tipologia di crimine.

Negli anni Settanta e Ottanta, in Italia hanno operato importanti organizzazioni terroristiche (basti citare tra tutte le Brigate Rosse) che hanno utilizzato lo strumento divulgativo per “spiegare” l’azione terroristica, chiarendo come – senza i mass media – le loro azioni non avrebbero sortito lo stesso effetto; e il medesimo modus operandi venne messo in campo anche da Al Qaeda, il cui fondatore Osama Bin Laden aveva affinato la comunicazione interna all’organizzazione (e quella esterna alla stessa) confezionando messaggi brevi, lineari, immediati, simbolici e di forte impatto. La distinzione tra il bene e il male è ben definita e non lascia nulla all’interpretazione soggettiva, elemento questo che serve per arruolare e indottrinare persone che, senza dubbio alcuno, sanno cosa stanno scegliendo. L’estrema semplicità del messaggio e, dunque, la sua immediatezza, è il punto di forza dell’azione terroristica, di chi sceglie “adepti” da arruolare e di chi si arruola e mette in campo azioni distruttive. E i mass media, in questo, svolgono un ruolo importante, di collante.

Il professor Bauman ha sollevato di recente un nuovo problema, sostenendo che ciò che i media originano – ossia la confusione tra terrorismo e immigrazione – facilita i terroristi a raggiungere i loro obiettivi: quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più cresce la loro frustrazione e il loro rancore e tanto più facile è la possibilità di reclutamento. Ed ecco che i Governi utilizzano il clima di terrore per spostare l’attenzione dei cittadini dai problemi reali (che derivano dall’angoscia dell’incertezza del futuro) a problemi “scenografici”, di forte impatto sociale, in cui anche chi governa viene percepito come vittima, alla stregua della popolazione civile.

Parafrasando Umberto Eco: «Viviamo in una società complessa, che sempre meno consiste nel dare notizia di fatti e sempre più diventa produzione di fatti per darne notizia o farne notizia».

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