Un viaggio negli inferni di Luigi Chiatti, il mostro di Foligno | scirokko.it

«Quella sera tutti parlavano di me. Per la prima volta mi sono sentito importante!».
(Luigi Chiatti, durante l’interrogatorio)

Nacque il 27 Febbraio 1968 a Narni (Terni) da Marisa Rossi, una ragazza madre che lo mise al mondo all’età di ventiquattro anni. Il suo nome ufficiale, infatti, è Antonio Rossi.
La giovane madre, in ristrettezze economiche per via del lavoro precario da cameriera, si vide costretta ad abbandonare il figlio in un orfanotrofio; i primi tempi, le visite erano piuttosto frequenti ma col passare del tempo cominciarono a diventare sempre più rare e anche l’atteggiamento nei confronti del figlio divenne distaccato e freddo. Nel 1972, Antonio non vide più sua madre.
La vita all’interno della struttura era particolarmente problematica: Antonio era un bambino introverso, con atteggiamenti aggressivi e attacchi d’ira incontrollabili, soprattutto nei confronti delle figure femminili, comportamenti che vennero immediatamente ricondotti all’abbandono da parte della madre. Ma solo qualche anno più tardi si scoprirà che, oltre al trauma dell’abbandono, il piccolo fu vittima di abusi da parte del prete della struttura, che giunsero al termine nel 1974, quando Antonio venne affidato alla famiglia Chiatti con l’espressa richiesta di farlo vivere in un contesto affettivo.

Qui finì la vita di Antonio e cominciò la vita di Luigi, nome datogli dai nuovi genitori quando il piccolo aveva sei anni. Il padre adottivo si chiamava Ermanno Chiatti e di professione faceva il medico, mentre la madre Giacoma Ponti era un ex insegnante. Lui, persona solare ed estroversa fuori casa ma chiusa e introversa nel contesto familiare, sfuggiva a qualsiasi contatto con quel figlio che non avrebbe mai voluto adottare, rinchiudendosi nel suo studio; lei, innamorata del bambino, cercava di compensare l’assenza del padre  instaurando con Luigi un rapporto di dialogo e di confidenze, che lasciava presagire un futuro di riscatto per il piccolo. In realtà, ben presto, Luigi cominciò a chiudersi anche con lei, vivendo i rimproveri della madre e i silenzi assoluti del padre come qualcosa di insopportabile, che gli genereranno numerosi sensi di colpa.
Quel contesto familiare, che lui stesso definì “senza vie d’uscita”, divenne ancor di più soffocante a seguito di un episodio: durante un giorno di scuola, la sua insegnante (nonché sua vicina di casa) rimproverò Luigi per il fatto che in casa picchiasse la nonna. Per Luigi quella confidenza fatta ad un’estranea fu insopportabile: cominciò a sentirsi etichettato come “cattivo” (mentre lui sentiva di non esserlo) e provò disgusto ogni volta che varcava la soglia di casa.
All’età di dieci anni, Luigi venne mandato da una psicologa che lo seguì per qualche tempo, ma alla quale non riuscì mai ad aprirsi completamente per paura che le sue confidenze venissero poi riferite ai genitori; la diagnosi faceva riferimento a “marginalità ed iposocializzazione” e ad “un IO debole e anaffettivo, con scarso controllo degli impulsi”. Luigi teneva tutto dentro e andava sviluppando un comportamento metodico, preciso ma estremamente infantile, che si univa alla sua costante anaffettività e introversione. Riuscì a prendere il diploma di geometra e a svolgere due anni di praticantato, ma nel 1989 partì per il servizio militare, durante il quale ebbe le sue prime esperienze omosessuali. Nel frattempo, andava sviluppando via via fantasie sempre più frequenti, che avevano per oggetto i bambini: Luigi sognava di averne uno a sua completa disposizione, da poter accudire, educare e con cui intrattenere rapporti sessuali.

Arriviamo così al 1992, anno in cui la vita di Luigi volse al termine, mentre prendeva vita il “Mostro di Foligno”. Il 4 ottobre di quell’anno, Simone Allegretti, un bambino di quattro anni e mezzo originario di Casale (paese vicino Foligno) scomparve. La polizia cominciò le indagini, e mentre i media cominciarono a parlarne, un giovane milanese di nome Stefano Spilotros si costituì dichiarandosi colpevole. Ma dopo lunghi interrogatori, Spilotros venne rilasciato: si trattava di un mitomane in cerca di popolarità, che si era inventato tutto. Qualche giorno dopo, dentro una cabina telefonica, venne rinvenuto un foglio con scritto: «Aiuto. Aiutatemi per favore. Il 4 ottobre ho commesso un omicidio. Sono pentito ora, anche se so che non mi fermerò qui. Il corpo di Simone si trova vicino la strada che collega Casale e Scopoli. È nudo e non ha l’orologio con il cinturino nero e il quadrante bianco. Ps. Non cercate le impronte sul foglio, non sono stupido fino a questo punto. Ho usato dei guanti. Saluti, al prossimo omicidio. Il mostro». Nel posto indicato, venne trovato il corpicino denudato del piccolo Simone, nascosto tra i rifiuti. Non era presente nessun segno di violenza carnale: il piccolo presentava contusioni in tutto il corpo e una ferita da arma da taglio sul collo, ma era morto a causa di uno strangolamento. Qualche giorno dopo, un nuovo messaggio firmato “Il mostro” venne rinvenuto. Questa volta veniva presa di mira la polizia, definita poco intelligente e incapace di seguire le piste giuste, ancora concentrata sul mitomane Spilotros, mentre il vero mostro era libero di agire indisturbato. Il messaggio recitava: «Aiuto! Non riesco a fermarmi. L’omicidio di Simone è stato un omicidio perfetto. Certo, è dura ammettere che sia così da parte delle forze dell’ordine, ma analizziamo i fatti. […] Vi consiglio di sbrigarvi, evitando altre figuracce. Non poltrite. Muovetevi. Credete che basti una divisa e una pistola per arrestarmi. Usate il cervello, se ne avete uno ancora buono e non atrofizzato dal mancato uso. NB. Perché ho detto di sbrigarvi? Perché ho deciso di colpire di nuovo la prossima settimana […] ora tocca a voi evitare che succeda. Il mostro».
Il fatto singolare, in questa vicenda, fu il grande numero di mitomani che si dichiararono autori del reato e che rallentarono le indagini, mettendo nell’ombra Luigi.
Si arrivò così al 7 agosto 1993, quando scomparve di casa Lorenzo Paolucci, un ragazzino di tredici anni. In questa occasione vennero organizzate squadre di volontari che perlustrarono le zone limitrofe e tra questi volontari c’era anche lui: Luigi, il mostro. Il corpo del ragazzino venne trovato dal nonno sul ciglio di una strada, a seguito di un’indicazione fornita proprio da Chiatti. Ma questa volta “il mostro” aveva commesso uno sbaglio: o per troppa sicurezza o per distrazione, aveva lasciato evidenti tracce di trascinamento sul terreno, che riconducevano proprio alla sua abitazione. Vennero rinvenute tracce di sangue nella sua cucina e dopo un’accurata perlustrazione fu tutto chiaro: il bambino era stato prima ferito con un colpo di forchettone da cucina al torace e poi ucciso con un coltello alla gola. Quando la polizia condusse Chiatti alla centrale, il giovane non faceva che ripetere in modo ossessivo la filastrocca «Non sono stato io, io sono un bravo boy-scout», ma dopo un lungo interrogatorio crollò e confessò entrambi gli omicidi. La confessione venne da lui vissuta come una forma di espiazione e di “visibilità”, una possibilità di uscire da una condizione di non-esistenza per entrare, con un gesto eclatante, in una condizione di esistenza. Fu infatti chiaro che il motivo dei due comunicati firmati “il mostro” dipendevano dal fatto che, per la prima volta nella sua vita, Luigi si era sentito al centro dell’attenzione ed era lusingato della sua “popolarità”, tanto da innervosirsi profondamente quando i mitomani – addossandosi le colpe – gli toglievano la scena.

Luigi venne condannato a trent’anni di reclusione e al ricovero – per un minimo di tre anni – in OPG, e gli venne riconosciuta la semi-infermità mentale; nel 2004 e nel 2006 chiese personalmente dei permessi premio che furono respinti dal Tribunale di Firenze. Da settembre di quest’anno, è stato trasferito a Capoterra, a pochi chilometri da Cagliari, nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e, ancora oggi, viene dichiarato un soggetto socialmente pericoloso.

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