Ci sono dunque valori e valori. Ad esempio la mia macchina, avendo sul groppone una decina d’anni e chissà quanti chilometri ha un determinato valore di mercato, quantificabile attraverso calcoli che non conosco e non voglio conoscere ma che si rifanno a specifiche condizioni; il valore di un terreno segue un principio simile, ed immagino anche quello del denaro e degli oggetti in generale.
Poi ci sono quei valori che non sono quantificabili, con lo stesso metodo se non altro, i sentimenti giusto per citarne qualcuno, o il livello di dolore che si prova nello sbattere il mignolino con lo spigolo dell’armadio o il livello di piacere che si prova nel mangiare la granita al pistacchio. Si potrebbero creare dei misuratori, con un po’ di fantasia, in grado di valutare i suddetti livelli basandosi su variabili come la lunghezza dello “hummm” nel caso della granita o il numero di imprecazioni nel caso del contuso mignolo: con i sentimenti verrebbe già più complicato. O meglio, sono convinto che viga un metodo di misurazione dei sentimenti – quello temporale – ma che sia totalmente fuori strada (valuta la quantità piuttosto che la qualità allo stato puro, e si finisce col denigrare un amore di cinque minuti relegandolo fra i non amori quando magari forse amore lo era proprio). Ad ogni modo, la sostanziale differenza che intercorre fra i due tipi di valori sopracitati è pressoché riducibile al rapporto oggettività-soggettività. Il dato oggettivo dei chilometri percorsi è indiscutibile, viceversa il dato soggettivo delle emozioni è opinabile o se non altro non riducibile ad uno standard inattaccabile. In questa lista di valori, fra i non quantificabili intendo, possiamo inserirne uno che spesso passa inosservato: la parola. La parola è un oggetto e non è un oggetto al contempo, sicché sgusciante come un’anguilla difficilmente trova posizione con facilità nella dicotomia precedente. E’, o sembrerebbe essere, un oggetto in quanto similmente ad un artefatto, è un qualcosa di cui se ne fa utilizzo per i propri scopi; non è, o sembrerebbe non esserlo, giacché espressione di un mondo “interiore”, di idee, e le idee sappiamo bene che non sono propriamente cose, sono piuttosto un miscuglio di – diciamo così – essenze, per lo più intrise di personalissime emozioni. E allora… e allora succede che potrebbe risultare interessante e molto, soffermarsi a pensare al valore delle parole. E non intendo bazzicare terreni vanito-orgogliosi quali: “la mia parola ha più valore di una stretta di mano” o “la tua parola non vale niente”, quanto piuttosto quelli poco esplorati della quotidianità. Ora, dire poco esplorati è quasi una bestemmia, le pagine sull’argomento immagino si sprechino, io ne ho giusto assaggiato qualche stuzzichino. Il connubio parola-sensazione (o emozione) sembrerebbe essere indissolubile, e il principio secondo il quale noi esseri umani ne facciamo un uso comune e ci capiamo fra noi – ma giusto superficialmente – è ovviamente rivedibile. Evolutivamente parlando – okkei – questa forma espressiva ha avuto la meglio, probabilmente è la più congeniale, traccia una retta nel mondo dei significati e ne costituisce uno medio che racchiude tutte le sfumature dovute alle soggettività di ogni vocabolo in relazione ad ogni bocca e quindi ad ogni cervello e quindi ad ogni persona. Ma se vogliamo definirne la qualità, valutarne propriamente, puramente, il valore, nuovi scenari spuntano all’orizzonte. Partiamo da questo esempio: un tale, si chiama Joseph Kosuth, di mestiere fa l’artista, più nello specifico appartiene a quella tipologia d’arte raggruppata alla voce “arte concettuale”, se n’è uscito un bel giorno con un’installazione dal titolo “una e tre sedie”; questa installazione consta in una tela con rappresentatavi una sedia, la definizione del concetto di sedia sul vocabolario, e una sedia vera e propria. L’idea alla base di questo lavoro ha implicazioni filosofiche notevoli – con estrema semplicità si arriva al rapporto fra senso e significato (sinn und bedeutung) firmato Frege – ed è un ottimo trampolino per lanciarci nell’universo della parola in relazione con le unicità emotive di ognuno di noi. Immaginiamo adesso che io dica: “lei è bellissima” (e lo penso davvero che lei lo sia), come me centinaia e centinaia di persone utilizzeranno il “termine concettuale” bellissima, il quale risponderà per assumere un determinato valore alla natura di ogni soggetto, cioè, dato il livello di “sensibilità” del soggetto ecco il valore che l’espressione assume. Ecco perché se un poeta scrive un verso all’apparenza banale come “lei è bellissima” si tratta di poesia, nonostante il profano lamenti un “puah, questa è poesia? l’avrei potuto scrivere anch’io!”. E invece no. E’ una questione di sangue. (“Anche le parole/vene sono/dentro di esse/sangue scorre…” Ghiannis Ritsos). E’ proprio una questione di valore. Per cui, che dire, un termine, uno qualunque, esprime un concetto socialmente riconosciuto del quale se ne fa un utilizzo il cui puro veritiero valore è legato all’emozione al sentimento all’idea che si crea: il concetto l’utilizzo l’idea. La sedia la sedia la sedia.
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