Venti di cinema tra Messina e provincia

Non solo scirocco, ma venti diversi, dall’andamento conflittuale e irregolare, quelli che hanno plasmato talenti per poi portarli altrove e che hanno spinto registi e produzioni a scegliere la nostra città e la sua provincia come set nel corso degli anni .

Un amore certo intermittente, frammentario, fuggevole, che però ha lasciato ricordi duraturi come “Il postino”, “L’avventura”, “Caro diario”, tanto per citare i primi titoli che vengono in mente, e, per altri versi, ha “partorito” un discreto numero di cineasti e addetti ai lavori a vario titolo come, ancora pescando nel mucchio, Ninni Bruschetta, Maria Grazia Cucinotta, Marco Dentici.

A ben pensarci (e documentarsi) ce ne sarebbe abbastanza da costruire una piccola enciclopedia. Dunque, perché non tentarci? Lo faremo appuntamento dopo appuntamento, senza pretese di esaustività e con moto ondivago, ma sempre con l’obiettivo ben chiaro di delineare una mappa dettagliata del cinema a Messina, grazie a interviste o profili di protagonisti più o meno famosi, riflessioni su pellicole più o meno conosciute, segnalazioni di iniziative e molto altro. Iniziamo, dunque!

Lampi di luce nella nebbia: “Una storia semplice” di Emidio Greco.

Se alcune zone della provincia di Messina, dalle Isole Eolie fino ai comuni ricadenti nel comprensorio della valle d’Agrò, negli anni sono state scelte con una qualche frequenza da produttori nazionali e internazionali come locations per film più o meno fortunati, lo stesso non si può dire per la città, che appare in poche pellicole e assai raramente da protagonista.

In entrambi i casi va detto che il cinema ha sfruttato solo in minima parte le straordinarie opportunità offerte da un territorio che racchiude da solo tutti i possibili scenari dell’isola.

Le responsabilità uniscono istituzioni e privati, che spesso si sono dimostrati inabili a riconoscere, preservare e sfruttare in modo adeguato il territorio nella sua globalità.

Le ragioni sono molteplici e traspaiono tra le pagine delle opere dei maggiori letterati dell’isola. Oggi che le nostre mancanze si stemperano nell’abisso in cui pare sprofondare l’intero paese, può avere senso inaugurare questa rubrica con “Una storia semplice” di Emidio Greco, che non sarà certo il miglior film tratto dall’opera di Leonardo Sciascia ma probabilmente è il più affine allo stile e agli intenti dello scrittore racalmutese.

Una “Sicilia come metafora” dell’Italia intera, quella narrata da Sciascia, che nel film appare riconoscibile esclusivamente agli occhi di chi la abita. Spogliata da ogni riferimento folkloristico e iconico, l’isola si fa luogo astratto e universale, come appare oggi la vicenda che racconta il film: un groviglio inestricabile di connivenze tra poteri, di cui il cittadino comune è inevitabilmente vittima e complice.

A Messina, o meglio alla striscia di mare che separa la Sicilia dal resto d’Italia, è ambientato il prologo, mai scritto da Sciascia. Tra gli immacolati arredi anni cinquanta di una vecchia nave traghetto si consuma il breve dialogo tra l’anziano professor Franzò e un rappresentante venuto dal nord. Il primo torna nella sua terra, consumando lo stesso rito delle migliaia di siciliani che ogni anno attraversano le acque dello stretto per ritrovare le proprie radici, mentre il secondo vi metterà piede per la prima volta.

La Sicilia, che entrambi aspettano di vedere, è avvolta tra le brume del mattino, celata dalle nebbie di scirocco. “Forse non c’è più”, dice Franzò. Poi, all’improvviso e solo per un attimo, appare la costa messinese. Subito i due si preparano a scendere dalla nave e ancora una sola immagine della stazione marittima di Messina, prima che i due prendano altre strade.

Rivedere queste poche inquadrature basta a cogliere inquietanti differenze con il passato recentissimo della città (il film è del 1991), perché in pochi anni gli stessi elementi hanno subito trasformazioni radicali: il traghetto in servizio è lo stesso, ma giace nell’incuria, spogliato dagli arredi originali, che sono stati inspiegabilmente sostituiti da anonime quanto scomode sedute in plastica: il profilo della costa è immutato, ma soffoca sotto una colata di cemento che non ne ha risparmiato un solo metro; la stazione marittima è sempre al suo posto, ma solo le mura perimetrali sopravvivono a un piano di dismissione di cui ancora non conosciamo l’epilogo.

Possiamo consolarci, perché, come afferma Piero Spila in un saggio sul film: “la cosa che non si vede e non si riconosce è forse una cosa che assomiglia troppo a tutto il resto”.

Non useremo più i toni mortiferi di questa prima volta, ma siamo convinti che la valorizzazione di quanto si possiede passi anche dal riconoscimento di limiti ed errori, indispensabile per superarli.

Francesco Gulletta

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